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CAMBIO D'ABITO 1

Aggiornamento: 1 set 2022

Greenwashing, Fast fashion, Low fashion o Moda Etica?




Oggi sono tanti i brand e le aziende che lavorano nel settore dell’abbigliamento in modo etico ed è necessario, non solo conoscerle, ma capire meglio le realtà che ci sono dietro.


Cominciamo con il Greenwashing. Il termine è composto da due parole inglesi, “green” verde e “washing” lavare via, e questo trae in inganno.

Quando sentiamo parlare di Greenwashing forse pensiamo che alcuni produttori propongano ”linee consapevoli”, made in Italy e sostenibili.


E’ davvero così? VivereV cercherà di spiegartelo.


Cos’è in realtà il Greenwashing?



Ora – che viviamo nell’era della sostenibilità – risulta conveniente per le aziende investire in campagne di marketing che mettano in evidenza questo tipo di impegno.

Nella realtà dei fatti possiamo però, definirlo una sorta di “lavaggio delle coscienze”, di “ripulitura di immagine”, che spesso e volentieri non ricalca appieno la vera sostenibilità.

E’ – come è stato definito – un ambientalismo di facciata. Uno strumento efficace utilizzato dai brand per avere “la coscienza pulita”.

Non è improvvisamente diventato tutto green, sostenibile e non inquinante.


E per diverse ragioni, eccole:

I brand che pubblicano report annuali sulla loro produzione sono pochissimi o, quando lo fanno, questi sono parziali perchè in essi si cerca di mettere in evidenza i miglioramenti in atto e si minimizzano altre realtà meno limpide.

Il 42% delle dichiarazioni da parte delle aziende di scelte sostenibili è classificabile come fenomeno di greenwashing.

La Commissione Europea ha rilevato che oltre il 50% dei casi di propaganda sostenibile non fornisce al consumatore abbastanza informazioni. Nel 37% dei casi ne fornisce di vaghe, che possono fuorviare l’acquirente ricordando processi di sostenibilità ambientale, quando sono solo strategie di marketing. Nel 59% dei casi presi in analisi, da parte del commerciante non erano state portate abbastanza prove a valutare la veridicità della sostenibilità.

Ci sono dei colossi del fast fashion che propongono linee di moda di cui sopra (“consapevoli”), ma in verità si tratta di ben poca cosa perchè il grosso della loro produzione segue i vecchi canoni della moda consumistica. E’ solo una piccola parte...


Ed ecco la Fast Fashion:



Le caratteristiche sono in genere una qualità medio-bassa e l’economicità in modo da ottenere una veloce replicabilità della moda su una scala a diffusione globale per spingere i consumatori ad acquisti istantanei, veloci. Questo induce ad un bisogno di cose sempre nuove perchè costano poco ma dureranno meno...

Anche la certificazione “Made in Italy” – che ci potrebbe indurre ad una preferenza o ad una falsa interpretazione - non è una garanzia...

Non significa che si tratti di un capo etico e sostenibile e a volte – addirittura – non possiamo nemmeno avere la garanzia che sia davvero prodotto in Italia: l’unica cosa che conta per apporre l’etichetta è che sia confezionato in Italia...


La Slow Fashion



E', come dice il nome, una moda lenta. Nasce per ridare valore all’artigianalità persa in favore della globalizzazione. Le materie prime sono di altissima qualità, le tecniche di lavorazione pregiate, spesso fatte a mano e la produzione è limitata.

La moda sostenibile è una moda lenta, alle volte coincide anche con la sostenibilità ma non è necessariamente una garanzia di questo. Per esempio un brand del lusso della slow fashion crea pochissime collezioni in un anno e garantisce materiali di qualità. Ma quello stesso brand non è detto che rispetti concetti fondamentali come il riciclo o il riuso di materiali di scarto, o che si rifornisca da aziende etiche sotto il profilo ambientale, umano e animale.


Ma tu sai da dove proviene il filato? Come è stato coltivato o ricavato dagli animali? Chi lo ha prodotto? In quale Paese e in quali condizioni di lavoro?


Se vogliano definire un brand davvero sostenibile, questo deve soddisfare il “parametro” ambientale, quello della tutela dei lavoratori e quello della tutela degli animali.


Un brand che lancia decine di collezioni all’anno, che utilizza lavoratori pagati tra il 65 e l’80% in meno rispetto a quelli di altri settori o lavoro minorile, che sfrutta e utilizza animali, che ha un impatto sul Pianeta e che ci induce all’impulso dell’acquisto di qualcosa perché ce lo fa apparire come irrinunciabile, ma che useremo poco per poi buttarlo (magari anche pechè dura poco ai lavaggi), non è certo un’azienda che si possa definire sostenibile.

I brand che pubblicano report annuali della loro produzione sono ancora pochissimi. Quando lo fanno sono parziali e sottolineano i miglioramenti in corso, minimizzando però la realtà dei fatti, sicuramente meno felice.


Se acquisti un capo a pochi euro sarai contento di poter risparmiare, ma ignorerai il fatto che il vero prezzo lo sta pagando in realtà l’ambiente e migliaia di lavoratori e di animali sfruttati.


Possiamo partire dall’opposto per capire più facilmente: cosa non è sostenibile? Sicuramente:


-un brand che lancia decine di collezioni all’anno;

-che utilizza lavoratori pagati tra il 60 e l’85% in meno rispetto ad altri settori;

-un capo il cui prezzo basta a compiacere solo il tuo impulso all’acquisto, ma che probabilmente non ti serve veramente e metterai poco - e che durerà poco - ma che ti darà l’impressione di non poterne fare a meno;

-un brand che non soddisfa i tre parametri di cui sopra;

-non selezionare consapevolmente e non trattare con cura un capo riproponendolo nel tempo. Questa è una prima forma di sostenibilità, qualsiasi sia l’origine del nostro acquisto.


Vale sempre e in tutto: meglio meno ma di qualità (vedi Un Pianeta preso a pedate: 5 SPESA).

Quello che c’è da sapere sui tre parametri di sostenibilità affinchè tu possa effettuare degli acquisti consapevoli, con il piacere di non aver sfruttato nulla e nessuno e di aver lasciato la tua impronta più piccola sul Pianeta (vedi sempre Un Pianeta preso a pedate):


SFRUTTAMENTO DEI LAVORATORI

Non tutti ricorderanno la strage in Bangladesh nell’aprile del 2013. Ci fu il crollo di un edificio al cui interno lavoravano uomini e donne nel campo tessile in condizioni di veri e propri prigionieri: 1129 morti e 2515 feriti.

A Nuova Delhi nel 2019, un altro edificio di sei piani prese fuoco. Al suo interno (una fabbrica di borse) un centinaio di lavoratori stava dormendo (perché dormivano li?): poche le possibilità di fuga: 40 morti e circa 50 feriti, molti con gravi danni causati dal fumo.

Questi sono esempi che mettono in luce una realtà molto più grave e diffusa sulle condizioni in cui migliaia e migliaia di lavoratori (anche parecchi, troppi minori) sono costretti per miseria a lavorare sottopagati e – molto spesso – reclusi all’interno delle fabbriche.



Abiti puliti nel 2020 ha fatto una stima secondo la quale più del 90% dei grandi brand di moda non ha risposto o non ha fornito dati riguardo a salari, fornitori e lavoratori lungo tutta la filiera tessile.

Tra i diritti fondamentali di ogni essere umano è riconosciuta la cosiddetta Living wage cioè la paga di sopravvivenza mentre spesso, in molti paesi, sono sottopagati, sfruttati e condannati ad un’esistenza faticosa e di povertà, in taluni casi anche di soprusi e violenza.


Sulla base di questo si è formato un movimento globale: Fashion Revolution che, in sostanza, chiede: “Chi ha fatto i miei vestiti?”


Il cotone ad esempio: in India ne viene coltivato un tipo geneticamente modificato – il Cotone Bt. Questa pianta è altamente tossica per gli insetti e richiede un’impollinazione manuale perché nemmeno le api possono avvicinarsi. Ebbene, questo lavoro viene svolto da bambine dell’età compresa tra i 9 e gli 11 anni. Le famiglie, già molto povere, sono così costrette a vendere le proprie figlie come schiave per questo lavoro.

Nella regione dello Xinjiang, in Cina, i campi destinati all’agricoltura sono invece utilizzati per il cotone al 90%. Qui viene sfruttata la minoranza etnica degli Uiguri (0,6% della popolazione), che è oggetto di persecuzione.

India, Cina e Pakistan sono i Paesi dove è presente la maggior parte delle fabbriche tessili che producono a basso costo e distribuiscono poi qui, a noi, i Paesi ricchi.

L’acquisto di un capo di abbigliamento per Marina Spadafora - coordinatrice di Fashion Revolution Italia - deve diventare un atto non solo economico, ma anche una scelta morale.


Davvero vuoi indossare capi provenienti dallo sfruttamento di Persone e Bambini in tali condizioni?


SFRUTTAMENTO ANIMALE

Miliardi di animali sono oggetto di grande sfruttamento e sofferenze.

- Basti pensare ai tanti orribili e barbari allevamenti da pelliccia, (vedi e documentati in Piacevoli morbidezze). Fortunatamente alcuni Paesi, come la Norvegia, hanno varato leggi per abolire qualsiasi attività di allevamento di animali da pelliccia entro il 2025.

- Pensare al bracconaggio per le pellicce che si aggiunge agli allevamenti.

- Ai grandi - ed altrettanto orrendi - allevamenti intensivi da cui si ricava pelle e cuoio, oltre alle carni. Ma ci sono anche quelli adibiti solo alla “produzione” di cuoio.

- A come viene ricavata la lana: i vegani non la indossano e uno dei discorsi che di solito ci si sente dire è: “Ma tanto le pecore devono essere tosate”, “Se le pecore non venissero tosate, starebbero male” (ma chi l’ha detto!?)

In primo luogo tosare una pecora non è un fatto naturale. Come tutti gli altri animali nascono con il loro pelo che serve a loro. Nessuno si sognerebbe di tosare un gatto!

Per la lana non si tosano solo le pecore, ma anche la capra d’Angora, l’Alpaca, la capra del Cachemire, il cammello, il dromedario e il coniglio.

Le pecore di razza merino sono state modificate geneticamente al fine di ottenere una pelle con molte pieghe per avere maggiori quantità di lana (e maggiori infestazioni di larve di mosche per loro).

Per evitare che le mosche depositino le loro uova nella pelle delle pecore e che, quindi, non sporchino il loro “prezioso vello” con gli escrementi, gli allevatori attuano un’operazione chiamata il mulesing.



L’animale viene bloccato testa in giù con delle barre di metallo e gli vengono tagliati lembi di carne viva dall’area perianale e mozzata la coda, lasciando i tessuti vivi e sanguinanti. Questo intervento viene fatto con un coltello e senza né anestesia nè disinfettante. Alcuni animali non sopportano tale tortura e muoiono.

I tosatori non sono pagati a ora come tutti, ma a numero di capi tosati. Ciò che più conta, quindi, è la velocità, non la precisione, né la preparazione o alcuna certificazione. Per far questo gli animali sono trattati a catena di montaggio senza alcun riguardo, presi a forza, trascinati, lasciati sanguinanti dopo l’orribile “intervento”.

Appena gli ovini - che sono riusciti a sopravvivere a queste torture - non producono più una lana bella e abbondante per età e per sfruttamento, vengono caricati su camion e costretti ai cosidetti viaggi della morte: calpestati, maltrattati, assetati e terrorizzati verso i mattatoi. In natura vivrebbero 12-14 anni.

-Ai piumini d’oca. Per realizzare giacche e trapunte le piume vengono strappate via senza alcun riguardo e senza anestesia.



Per ottenere il piumino le oche vengono appese per il collo, con le zampe legate e terrorizzate e tutte le loro piume vengono strappate. Le oche – com’è ovvio – si dimenano e, così facendo, si procurano serie ferite; quando questo tormento è finito vengono gettate tra le altre finchè non sarà di nuovo il loro turno. Cominciano ad essere spennate già all’età di otto settimane di vita e l’operazione viene ripetuta ogni otto settimane, per altre due o tre volte. Questa procedura causa enormi sofferenze alle oche che, dopo essere state spennate, vengono ributtate nella stalla, sfinite e scioccate dove rimangono immobili in un angolo.

Anche in questo caso il lavoro è a cottimo: ogni operatore spenna fino a 100 oche al giorno, una ogni 3-4 minuti. Non c’è certo il tempo per lavorare con delicatezza e tutto procede molto velocemente, nessuno bada alle grida di dolore degli animali ai quali spesso, insieme alle piume viene portata via anche un po’ di pelle lasciandole sanguinanti.

Questa tortura viene definita “estremamente crudele” persino dai veterinari e gli stessi allevatori.


Agli occhi di un consumatore – ignaro della sofferenza da cui ha origine – un capo di vestiario di origine animale, anziché sintetico, appare come un valore aggiunto: cioè la naturalezza.


Davvero vuoi indossare capi provenienti da tali sofferenze e morti di milioni di Animali?


SFRUTTAMENTO AMBIENTALE

Ai primi posti per lo sfruttamento di risorse (acqua e suolo) e per emissioni in atmosfera, c’è sempre stata l’industria tessile, unitamente ai grandi allevamenti intensivi.

Infatti, l’estrazione e la trasformazione delle risorse sono responsabili di metà delle emissioni totali di gas a effetto serra e di oltre il 90% della perdita di biodiversità e dello stress idrico.

La stima è, per ogni europeo, di un consumo di 1,3 tonnellate di materie prime, 104 metri cubi di acqua e 654 chili di CO2.



Ad esempio, per produrre una sola maglietta occorrono 2.700 litri di acqua, che coprirebbero il fabbisogno di una persona per oltre due anni e mezzo

O gli ormai irrinunciabili jeans: sono tra i i più inquinanti per via della grande quantità di cotone richiesto e per l’utilizzo di una potente miscela utilizzata che può essere dannosa all’ambiente e ai lavoratori.

L’industria tessile è inoltre anche responsabile della dispersione in mare di 0,5 milioni di tonnellate di fibre sintetiche ogni anno, cioè il 35% delle microplastiche rilasciate nell’ambiente (vedi Mare nostrum).

Questa costante corsa alla fast fashion ha portato il settore tessile tra i tre più impattanti a livello ambientale e sociale.

L’Agenzia Europea dell’Ambiente ha stimato che, se non cambiamo direzione, nel 2050 questa industria consumerà un quarto dei combustibili fossili della terra.

Di tutta la produzione, al momento, purtroppo viene convertito solo l’1%, mentre l’85% dei tessuti viene incenerito o finisce nelle discariche. Ma la maggior parte dei materiali sarebbe facilmente riutilizzabile!!!

Per questo l’Unione Europea ha stabilito che entro il 2025 la raccolta differenziata dovrà essere estesa anche ai rifiuti tessili.


Davvero vuoi indossare capi la cui produzione danneggia così il Pianeta?


Ma allora come fare, cosa scegliere, quali alternative?


La moda etica

-Scegliere abbigliamento prodotto con materie prime certificate e composte da fibre naturali biologiche o riciclate.

-Acquistare capi sintetici ma di alta qualità, che permettano un uso nel lungo termine anziché un accumulo o un continuo cambio d’armadio.

-Evitare materiali sintetici come: Rayon, Spandex, Nylon, Acrilico, Modal, Poliestere e Rayon (sono molto dannosi al Pianeta).

-Scegliere jeans tra le aziende che hanno cominciato a produrli rigenerati, utilizzando tinture a basso impatto ambientale e cotone e acqua riciclati.

-Scegliere prodotti con un packaging realizzato con materiali riciclati e compostabili.

-Evitare acquisti che comportino spedizioni rapide che sono fonte di inquinamento e sfruttamento dei lavoratori.

-Acquistare articoli cruelty free, evitando quindi pellicce, articoli in pelle (scarpe, borse ed accessori, capi e biancheria in piuma d’oca e di lana);

-Acquistare nei vintage o nei secondhand;

-Utilizzare siti di scambio: ci sono tanti siti sul web con i quali connettersi con persone che hanno intenzione di liberarsi di capi d’abbigliamento. Le modalità sono gratuite.

-Imparare a leggere le etichette e scegliere capi certificati. Dal momento che non è facile avere questo tipo di informazioni esistono diversi enti che garantiscono la sostenibilità delle aziende, rilasciando loro determinate certificazioni a riguardo.

Come: Grs, Oeko Tex, Ocs, Gots, Fsc, Fair Trade e Fair Wear Foundation che garantiscono l’uso di fibre organiche, l’assenza di sostanze inquinanti, la realizzazione con alberi ricavati in modo sostenibile, o creati in condizioni in cui gli operai sono pagati equamente. Cerca queste etichette.

-Se non la conosci, VivereV ti informa che esiste un’app che si chiama Good on you, la quale viene in aiuto ai consumatori facendo un calcolo e una media dei parametri relativi all’ambiente, ai lavoratori e agli animali e arrivando a dare un risultato da 1 a 5. I dati elaborati derivano dalla trasparenza del brand sulle filiere di approvvigionamento e produzione da loro pubblicati. Se un brand non pubblica nulla a riguardo, avrà il punteggio minimo. E’ semplice: inserisci il nome del brand e l’app ti mostrerà tutte le informazioni di cui è in possesso. Il limite di questa app è che – sebbene siano presenti parecchi marchi – non copre l’intera produzione, ma tu puoi benissimo segnalare la mancanza di un marchio affinchè provvedano ad aggiungerlo.

-Scansionare il Qr Code di ogni prodotto con lo smartphone. Potrai conoscere tutta la filiera produttiva in modo trasparente. Grazie alla tecnologia blockchain, che permette di certificare la filiera produttiva, e non solo nel campo dell’abbigliamento (ne ho cominciato ad accennare in Zero Waste). Questo sistema permette il tracciamento completo di prodotto a partire dalla raccolta della fibra fino al consumatore. Ogni prodotto possiede una sorta di “carta d’identità digitale”, che viene contrassegnata ad ogni passaggio e non può mai essere modificata, perché le informazioni vengono caricare nei "nodi" della "catena", i quali certificano in maniera inalterabile le informazioni. Viene quindi documentata la circolarità del prodotto, la trasparenza dell’azienda e l’alta qualità del capo. I lati positivi della blockchain sono svariati: rappresenta anche un metodo concreto per evitare inconvenienti dal lato economico: tracciare un prodotto significa eliminare frodi o alterazioni della merce.

- Pensare bene 100 volte prima di acquistare, valutando tutto quanto elencato finora.



Matteo Ward, co-fondatore del movimento Fashion Revolution Italia (di cui sopra) sostiene che anche immettere sul mercato prodotti sostenibili non sia sufficiente, in quanto anche questi richiedono risorse ed energia.

Egli pensa che, dal momento che il settore tessile conta 65 milioni di lavoratori impiegati che percepiscono – come già detto - uno stipendio tra il 65% e l’80% più basso del minimo necessario, anche indipendentemente dalla fast fashion, la prima cosa da fare è capire come responsabilizzare il prodotto. Finché non verrà valorizzato il lavoro di chi produce materialmente i capi, non si riuscirà mai a risolvere il problema della moda.

Marina Spatafora, come detto coordinatrice di Fashion Revolution Italia ed ambasciatrice di moda etica nel mondo, voce autorevole nel campo della moda etica e sostenibile ed anche stilista di fama internazionale ci ricorda che il primo principio stabilito dalla Wfto per il commercio equo e solidale è "Creare opportunità per i produttori con svantaggi economici".

E parla della teoria della “triple bottom line” (tripla linea di fondo). E cioè: un’azienda dovrebbe concentrarsi su tre diversi aspetti, tutti ugualmente importanti nella strategia d’impresa, ma fondanti per un mercato che possa essere definito sostenibile.

Questa definizione è stata coniata dall’imprenditore e accademico britannico John Elkington e i tre pilastri su cui si fonda la teoria sono: Persona, Pianeta, e Prosperità (o Profitto).

Il punto di incontro di questi tre aspetti – senza che nessuno sovrasti sugli altri – porta alla sostenibilità.


Grandi marchi della moda, anche noti nella categoria del lusso, stanno intraprendendo una via più sostenibile, nella quale già troviamo da anni Altromercato e Cangiari (del gruppo Goel).

È importante anche che i grossi brand quotati in borsa, diano ai propri investitori ogni anno il rapporto di sostenibilità.

Ma è anche necessario un passaggio progressivo da un’economia di tipo lineare all’economia circolare, soluzione fondamentale per contrastare le logiche economiche in uso. I capi di abbigliamento vengono creati e da quel momento faranno parte di un cerchio, nel quale evolveranno per ritornare al punto di partenza: dalla terra, per la terra.


Molto importante - come sempre - è anche il ruolo di ogni singolo consumatore, cioè tu che puoi agire abbandonando il greenwashing e soprattutto la fast fashion e rivolgerti ad un mercato equo per tutti: Terra, Animali e Uomo. Gli abiti non ti peseranno più sulle spalle!


Per fare questo sarebbe necessario parlare anche delle idee ed innovazioni in atto da parte di parecchie realtà aziendali, come e dove rivolgersi per le proprie scelte e dei marchi sul mercato. Ma il discorso diventerebbe davvero troppo lungo.


VivereV ti rimanda quindi a Cambio d’abito 2 dove approfondirà questi aspetti.





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